COVID-19: Testimonianza dal Burkina Faso

Il virus si sta diffondendo anche qui, non con la virulenza di altri contesti geografici, almeno così sembra: cammina lentamente e semina morte, paura, angoscia.
Rapidamente sono state adottate le stesse misure restrittive varate in altri contesti: chiusura di scuole e mercati, confinamento, coprifuoco.
L’invito è lo stesso che in Italia: rimanete in casa, abbiate cura dell’igiene, mantenete le distanze di sicurezza, al primo sintomo chiamate l’emergenza medica.

Tempestiva la chiusura delle scuole e l’annullamento delle iniziative sociali e religiose che prevedevano grandi assembramenti di persone. Ottima mossa: l’esperienza cinese e europea è stata maestra! Questa misura, tuttosommato, è stata attuata senza problemi. Qualche resistenza, certo, ma alla fine il buon senso è prevalso. Anche di un’altra esperienza si è fatto tesoro: la lievitazione dei prezzi di mascherine, guanti, saponi igienizzanti. È stato diffuso un listino prezzi nazionale per contrastare lo sciacallaggio. Osservando gli altri Paesi, il Burkina sembra (il dubbio è d’obbligo) essersi mosso in tempo per assicurarsi attrezzature e materiale medico indispensabili per fronteggiare l’emergenza (così dicono in TV).
L’osso duro da gestire è quel “restez à la maison”. A cui è associata un’altra misura, davvero improponibile per chi vive alla giornata: la chiusura dei mercati. Per non parlare, infine ma non come ultima, della difficile gestione della risposta igienica (acqua e sapone) alla pandemia.
Rimanere in quali case? Siamo in piena stagione secca e fa un caldo terribile. Molte (troppe) case sono fatiscenti e affollate di gente. Sono addossate l’una all’altra, con un piccolo spazio esterno spesso in comune con altre famiglie. Per tanti (troppi) la casa è “entrée couché”, unico ambiente, 13-15 m2 in tutto e per tutto. I più fortunati hanno 4-5 m2 in più, una piccola stanzetta adibita a camera da letto. Durante il giorno, il tetto in lamiera trasforma le case in saune.
La ricerca del cibo e la chiusura dei mercati è faccenda assai seria: purtroppo si mangia tutti i giorni anche in presenza del coronavirus! Solo pochi possono permettersi una riserva alimentare: una bottiglia di olio; un sacco di riso; un chilo di sale o di zucchero; un paniere di soumbala o di gombo secco o di arachidi. Ogni giorno si va al mercato o dalla vicina che fa piccolo commercio e si compra l’occorrente per il pranzo e la cena quotidiana perché i soldi a disposizione non permettono altro: si vive alla giornata e si mangia con il lavoro di ogni giorno. Sono in molti a comprare ogni giorno un cucchiaio di olio (50f), magari dalla vicina che ha avuto la possibilità di acquistare un litro di olio, lo ha meticolosamente distribuito in bustine e lo rivende per guadagnare quei 200-300f che gli permettono di andare al mercato e comprare il “pane quotidiano” da mettere sulla tavola per sfamare se stessa e tutta la famiglia. E quei 50f per comprare l’olio sono frutto, forse e senza forse, della vendita ancora di qualcosa, forse di bustine di pasta, perché a sua volta e stato comprato un chilo di spaghetti e, dopo averli spezzati, sono stati distribuiti in bustine e venduti al dettaglio. Ed è così per tutto: pomodori, cipolle, melanzane, peperoni venduti a unità o a piccoli mucchietti di 2 o 3 o 4; lo zucchero o il sale venduti in bustine di 50 o 100 grammi; il caffè il bustine monodose. Si compra il dettaglio del dettaglio. Se si ascoltano nel profondo le donne che in TV mettono a nudo la realtà vengono i brividi: con i mercati chiusi forse non si muore di virus, ma certamente si morirà di fame. Chiudere tutto in un Paese che vive di economia di sussistenza è come preparare il cappio e attaccarlo a un albero. Eppure è stato constatato che è l’unico modo per fermare la diffusione dilagante del virus. Allora, forse, alla chiusura e all’invito a stare a casa bisognava immediatamente attivare e affiancare un programma di supporto alimentare per tutte quelle famiglie che vivono di quello che producono. I funzionari a fine febbraio hanno ricevuto il loro stipendio e andranno avanti fino a marzo, ma gli altri? Cosa ne sarà del loro futuro. Un altro “punto dolens” è l’igiene. Nei villaggi c’è il pozzo comune, quasi sempre in periferia, al crocevia di più villaggi. Nelle città, non in tutti i quartieri e non in tutte le case, la distribuzione dell’acqua è centralizzata. Nei villaggi un pozzo serve una miriade di persone ed è lontano quanto basta per scoraggiare anche i più ben intenzionati ad andare a prelevare l’acqua anche una sola volta in più rispetto all’organizzazione di sempre. In città la mancanza di acqua è giornaliera e riguarda spesso le ore pomeridiani quando il caldo è più insopportabile. C’è poco da dire: basta chiudere gli occhi, immaginare le case descritte senza acqua e udire nelle proprie orecchie l’invito a lavarsi le mani bene, più volte al giorno, col sapone.
La situazione è molto critica e il popolo burkinabè avrà certamente il coraggio di affrontare anche questa prova con grande dignità e tenacia.
Quando ci si incontra da lontano ci si dice l’un l’altro “bon courage”: che il coraggio abiti il nostro cuore e ci conduca fuori da questo terribile tunnel.

di Grazia Le Mura